L'ultimo acronimo inventato dal Governo si chiama APE che però non è l'utile e noto insetto che in primavera esce dal letargo, ma significa “Anticipo Pensionistico”. Con l'Ape il Governo Renzi sembra intenzionato a proporre una misura finalizzata a ridare flessibilità in uscita al sistema previdenziale che, dopo la legge Fornero è diventato estremamente rigido. Finalmente, verrebbe da esclamare! Anche perché sono ben tre anni che l'esecutivo promette di occuparsi di questa sentita questione.

Ma vediamo, sulla base delle informazioni oggi disponibili, di cosa si tratta. A partire dal 2017, potrebbero essere interessati - l'uso del condizionale è d'obbligo - gli over 63 anni, che potrebbero uscire dal lavoro con un anticipo massimo di tre anni rispetto al raggiungimento dell'età per il diritto alla pensione di vecchiaia, che attualmente è 66 anni e 7 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne. Per ogni anno di anticipo verrebbe applicata una penalizzazione, diversificata secondo l'importo della pensione, che sarebbe del 2/3% per assegni fino a 1.500 euro lordi (tre volte il minimo), oppure del 5/8% per cifre superiori. Il lavoratore intenzionato ad anticipare dovrebbe recarsi presso gli istituti di  credito (banche o assicurazioni) che, attraverso la modalità del prestito a carico del beneficiario, gli garantirebbe l'assegno mensile  per gli anni mancanti al raggiungimento dell'età della vecchiaia.

La penalizzazione sarebbe applicata sulla parte di pensione calcolata con il sistema retributivo, mentre la quota contributiva sarebbe in salvo, ma non conosciamo, al momento, quali coefficienti di trasformazione sarebbero applicati, ovvero se quelli relativi all'età anticipata o all'età ordinaria. Se fossero i primi determinerebbero una ulteriore riduzione dell'importo della pensione, da valutare caso per caso. Una volta raggiunta l'agognata età, il lavoratore e la lavoratrice sarebbero presi in carico dall'Inps, ma dovrebbero cominciare a restituire il debito accumulato nei confronti del sistema bancario con un piano di ammortamento. Non è chiaro chi pagherebbe gli interessi e in che misura: il pensionando, lo Stato, l'Inps?

Per capire meglio esaminiamo l'esempio concreto di un lavoratore di nome Mario che, arrivato a 64 anni e sette mesi, decide di uscire in anticipo di tre anni, avendo maturato una pensione di 1.500 euro lordi mensili, pari a 19.500 euro lordi annui. Ipotizziamo una penalizzazione complessiva a vita  del 9% per effetto della quale Mario riceverebbe 1.365 euro lordi al mese pari a 17.745 euro lordi annui, con una decurtazione annua pari a 1.755 euro che, moltiplicati per 20 anni di speranza di vita, ammontano esattamente a 35.100 euro totali in meno.

Alla fine del triennio di anticipo, oltre che continuare a ricevere meno pensione Mario si troverebbe indebitato con il sistema bancario per 53.235 euro, esattamente l'ammontare lordo degli assegni  che ha ricevuto e che dovrebbe cominciare a restituire con rate mensili per circa 18 anni. Insomma un vero e proprio mutuo sulla persona, contratto alla bella età di 67 anni e 7 mesi.

Vengono spontanee molte domande perché non si capisce perché se Mario deve restituire quanto ricevuto in anticipo deve continuare ad avere anche la decurtazione sull'assegno pensionistico e quindi ad essere penalizzato due volte. Chi dovrà pagare gli interessi del prestito ? Se Mario venisse a mancare, i suoi eredi dovrebbero pagare al suo posto la restituzione. Nel caso di pensione di reversibilità che viene decurtata di almeno il 40% cosa succederebbe alla vedova? Le verrà ridotto anche il debito oppure no?

Non vogliamo aggiungere altro se non che tutto questo ci sembra davvero un grande pasticcio; una proposta macchinosa, complicata, non conveniente per le persone, che non soddisfa il bisogno di flessibilità in uscita, sul quale insistiamo da tempo. Insomma una presa in giro. Forse gli unici interessati potrebbero essere le banche e le assicurazioni? Lasciamo la risposta ai nostri lettori e ai nostri assistiti.

di Fulvia Colombini, del collegio di Presidenza Inca